“Tutta la fronte dei giardini farnesiani è stata abbattuta, come le fabbriche costruite dai Farnese sui ruderi del Palazzo Imperiale”.
Con queste laconiche parole pubblicate nel 1883 sulle Notizie degli Scavi di antichità, si dà conto dell’avvio dei grandiosi scavi che, nel giro di qualche decennio, portarono alla riscoperta di gran parte dei monumenti del Palatino e del Foro Romano.
Dopo la presa di Roma e il compimento dell’Unità d’Italia, urgeva la necessità di riscoprire il cuore e la grandiosità dei monumenti antichi, per ritrovare le radici di un’identità comune. Fioriva allora il mito della Terza Roma, sul ceppo di quello secolare e sempre vivo di Roma Aeterna.
Perivano così i giardini tra i più celebri di Roma, gli Horti Farnesiani, che per secoli erano stati oggetto di meraviglia e ammirazione, teatro di feste, svaghi, ricerche, incontri di ogni genere. A voler essere precisi, sul finire dell’Ottocento periva quella che era la forma che questi famosi giardini avevano preso nel corso dei secoli, che già di molto era diversa da quella originaria. Perché un giardino è sempre una creazione degli uomini quanto mai dinamica, vibrante, in perenne divenire, che ben racconta col suo aspetto i mutamenti sociali e culturali delle diverse epoche che attraversa.
Ma non solo. Un giardino è anche una speciale creatura architettonica fatta di natura ammansita, artifici, acqua, costruzioni e creature pulsanti, che compongono un microcosmo vivente di un suo equilibrio.
Tra l’età del Rinascimento e quella Barocca, i giardini si fanno specchio del mondo e di chi li ha voluti e creati, riflettendone cultura, ambizioni, ideali e visioni del mondo. Piccoli paradisi artificiali in cui le forme di vita aristocratica della prima età moderna trovano un loro teatro di elezione: per i diletti della vita di corte, per l’autorappresentazione sociale e politica, per gli incontri privati o ufficiali, per coltivar la scienza e le proprie passioni di sapere.
Ma cosa resta oggi degli Horti Farnesiani? Come possiamo coglierne il senso storico e i valori culturali? Per nostra fortuna materialmente ne resta ancora molto: padiglioni, fontane, scale, le tracce dei percorsi. E quel che è perduto, sia di fisico che di immateriale, lo possiamo recuperare grazie ai tanti disegni, dipinti, piante, documenti e fonti che ne raccontano la storia. Che ci raccontano la storia di questo luogo che fu la gloria dei Farnese.
Questa storia comincia intorno agli inizi del Cinquecento, quando Roma è sotto il pontificato di Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere. La città è tutta un cantiere, brulica di architetti, artisti e studiosi che, nutrendosi delle antichità classiche, stanno dando a Roma e alla cultura un volto nuovo, moderno: Raffaello, Baldassarre Peruzzi, i Sangallo, Bramante, solo per citare i maggiori. La città abitata è tutta stretta lungo il fiume, dovesi era ritirata durante il medioevo: tra il Vaticano e Trastevere a destra e il Campo Marzio a sinistra. Il cuore di Roma antica, il Foro Romano, il Palatino, il Colosseo, il Colle Oppio, sono fuori dall’abitato: sono campagna e pascoli, che però con il loro retaggio di monumenti diventano il più importante laboratorio della memoria d’occidente, con antiquari e artisti, oltre che la cava dei più pregiati materiali che servono a
far trionfare la nuova Roma immaginata dai pontefici umanisti.
I Farnese mettono probabilmente il primo piede sul Palatino grazie all’acquisto di una vigna fatto da Alessandro Farnese: quell’Alessandro che nel 1534 ascenderà al soglio pontificio passando alla storia col nome di papa Paolo III, uno dei più celebri pontefici della storia.
Si susseguono poi nei decenni successivi una serie di acquisti di altre vigne e terreni, che porta alla costituzione del vasto fondo su cui nascono i giardini farnesiani. Ma, parafrasando un celebre detto, gli Horti Farnesiani non sono stati costruiti in un giorno. Ci sono voluti anzi decenni, quasi tre quarti di secolo perché questi giardini assumessero la loro forma più completa. Ma prima di vedere il come, dobbiamo chiederci il perché e dove furono costruiti. Il Palatino è il cuore pulsante e la culla di Roma antica: qui, secondo la leggenda, Romolo fondò la sua città, la Roma Quadrata delle origini. I grandi antiquari del Rinascimento lo sapevano benissimo come noi oggi, e avevano già raccolto nei testi antichi tutti i passi necessari a raccontar la storia. Paolo III era stato educato da Pomponio Leto ed era maturato all’ombra di figure del calibro di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino. Mettere piede sul Palatino, la terra di Romolo, significava molto per lui. Tutto poi accelera nel 1536, quando anche a Roma viene organizzato un trionfo per la vittoria di Tunisi di Carlo V d’Asburgo, l’imperatore sul cui regno non tramontava mai il sole.
Se ne fa regista lo stesso Paolo III, da poco pontefice e impegnato a curare le terribili ferite inferte alla Città Eterna dallo scioccante Sacco dei Lanzichenecchi del 1527. Il Trionfo per l’imperatore viene ideato come un magnifico apparato effimero che ricalca l’omonima cerimonia dell’antica Roma: ogni trovata e lo stesso percorso si caricano di simbolismi e allegorie politiche che usano il mito e la storia antica per raccontare il presente.
In quell’occasione, il Foro Romano viene per la prima volta sgomberato da case e casupole, per consentire al corteo di ripercorrere idealmente il percorso segnato ancora dagli archi trionfali superstiti: quelli di Costantino, di Tito, di Settimio Severo. Il cuore della città antica si fa così carne viva della città moderna.
Matura forse in quegli anni e in quel clima nel Farnese l’idea di usare il Palatino per plasmare la storia, la propria storia: quella di un uomo che può vantarsi di aver rimesso in piedi Roma, resistito alla tempesta luterana, riportato pace tra Carlo V e Francesco I, ristabilito il prestigio e l’autorità della Cattedra di Pietro. A portare avanti il progetto dei giardini e a realizzarli sono però i familiari del papa, nel corso di due generazioni, tra il 1570 e il 1630 circa.
La prima generazione, con Ottavio, Ranuccio e Alessandro nipote, realizza il muro quadrato di cinta, il monumentale portale, l’emiciclo di ingresso a forma di teatro e la prima rampa di scale che porta al criptoportico. Se si osserva la pianta e la forma di queste prime costruzioni si coglie subito il senso simbolico del progetto. Il recinto quadrato cita in modo scoperto la Roma Quadrata di Romolo. Il grande portale, smontato alla fine dell’Ottocento e oggi parzialmente rimontato su via di San Gregorio, l’idea dell’arco trionfale. L’ingresso a emiciclo teatrale con la cordonata e il criptoportico l’esempio degli Antichi, inventori e maestri di orti e giardini monumentali. Questo primo nucleo dialoga visivamente e, in un certo senso, si specchia nei grandiosi resti della Basilica di Massenzio, che all’epoca era creduta essere il Tempio
della Pace. I Farnese dunque non solo come novelli Romolo, ma anche Numa Pompilio, secondo re di Roma religiosissimo e portatore di pace.
La seconda generazione, con Odoardo cardinale e Odoardo quinto duca di Parma e Piacenza, realizza il Ninfeo della Pioggia, il secondo terrazzo, il Teatro del Fontanone, le due rampe che portano alle due Uccelliere, dando infine forma piena e compiuta a tutto il vasto tenimento farnesiano. Anche qui ogni nuovo spazio si carica di funzioni e significati simbolici. Il Ninfeo della Pioggia nasce come spazio per banchetti e diletti, direttamente ispirato ai modelli antichi. Il gioco d’acqua della fontana evoca il musicale stillare della
pioggia, gli affreschi danno l’illusione di trovarsi immersi in una pergola animata da un gruppo di musici che allieta il tempo effimero della festa. La nuova terrazza superiore, col suo Fontanone a finte rocce, offre un nuovo colpo d’occhio sul cuore della città antica, evocando con il possente scrosciare delle acque l’idea delle acque primordiali, quelle dei tempi del diluvio. Non caso il percorso ascensionale d’ingresso ai giardini culmina nelle due Uccelliere, dove i Farnese raccolgono e allevano volatili del Vecchio e del Nuovo Mondo, in una sorta di mimesi paradisiaca: uccelli del paradiso, pappagalli, galline d’India, pavoni…
Giardino del Paradiso che si invera in quella che forse è stata la più straordinaria meraviglia degli Horti Farnesiani: l’Orto Botanico, in cui si raccolgono e trapiantano piante ed essenze extraeuropee, dando vita a uno dei più antichi e importanti giardini botanici d’Europa, centro non solo di meraviglia e di esotismo, ma di ricerca e sperimentazione scientifica. Ce ne ha lasciato compiuta testimonianza Tobia Aldini, medico di Odoardo e autore di un catalogo illustrato di tutte le piante coltivate nell’Orto Farnesiano, di cui in realtà sembra che fosse ghostwriter il naturalista romano Pietro Castelli. Sfogliando questa Exactissima descriptio rariorum quarundum plantarum si incontrano piante oggi per noi familiari, ma allora sconosciute e fonte di meraviglia: l’Acacia Farnesiana, la Yucca flaccida, la Passiflora edulis…
Ma tutto il pianoro palatino era conformato come un microcosmo in cui natura e artificio erano integrati a rappresentare il mondo: se si osserva la più celebre incisione degli Horti, quella del Falda, si riconoscono aiuole e siepi, l’agrumeto, le aree lasciate a selvatico, il belvedere del Casino dei Fiori, il giardino dei semplici e quello segreto. E un piccolo popolo di statue antiche, forse in parte cavate sul posto in parte trasportate ad hoc, che oggi sono in gran parte al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ma che all’epoca dovevano animare il giardino con le loro storie e la loro capacità di fare da ponte tra il passato e il presente. Perché nulla più di un giardino barocco riesce ancora oggi a darci l’idea compiuta di quella che fu la cultura dell’epoca: una cultura enciclopedica e universale, in cui la natura, l’uomo e dio, appaiono ancora compenetrati in un unico cosmo che alcune menti cominciano a decifrare, fondando così la moderna scienza.