L’Aedes Vestae
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Introduzione
Il sacrario di Vesta è un monumento a pianta circolare che custodiva il fuoco sacro di Roma, simbolo dell’eternità dell’impero romano. Vesta, originariamente la greca Hesthìa, era la dea del focolare e rappresentava l’essenza del fuoco stesso; la prima costruzione, risalente secondo la tradizione all’VIII secolo a.C. ed attribuita a Numa Pompilio come racconta lo storico Plutarco, doveva essere una capanna dell’abitato protostorico, costruita per proteggere la fiamma dalle intemperie per garantire la sua perenne fruizione all’interno del santuario dedicato alla dea. L’aedes doveva custodire insieme al fuoco eterno, anche altri oggetti sacri della tradizione (il Palladio, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo…). La capanna originaria, certamente realizzata in legno e vimini, venne successivamente sostituita da una nuova struttura in pietra con elementi decorativi di diversa foggia a seconda delle fasi, che assunsero una forma definitiva nel I secolo d.C. che si mantenne fino alla chiusura degli edifici sacri nel 391 d.C. Per il suo carattere tradizionalista, l’edificio mantenne difatti aspetto e dimensioni per tutta la sua storia architettonica.
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Le immagini del tempio
La forma rotonda dell’Aedes è rimasta immutata nel corso dei secoli. Fin dall’età repubblicana, come ci tramandano le due monete di Quinto Cassio Longino (57 a.C.) e di Caio Fannio (49 a.C.) l’Aedes appare rotonda con tetto a cupola, con due antefisse sul tetto e una probabile raffigurazione della dea in cima. L’epoca augustea è caratterizzata da una rivoluzione nel linguaggio architettonico che riguarda anche il ruolo della dea e il suo sacrario. Una preziosa testimonianza dell’aspetto del monumento della prima epoca imperiale è il rilievo degli Uffizi: l’edificio lì è rappresentato con un alto podio, movimentato da piedistalli sporgenti e pannelli rientranti, con una scala verso la porta d’accesso, aperta. I piedistalli sostengono basi composite cui si ergono fusti rudentati (riempiti per 1/3) tra cui appaiono grate metalliche, mentre i capitelli dal rilievo appaiono forse compositi. Seguono la parte superiore (architrave e fregio lisci) e la cornice. La copertura è costituita da un tetto a cono, di cui sono ben riconoscibili le lastre bronzee. L’aspetto più interessante è l’introduzione del podio sagomato, grande novità, forse augustea, rispetto alla iconografia repubblicana. Nel corso dell’età imperiale l’aedes verrà più volte restaurata, mantenendo tuttavia sostanzialmente il medesimo aspetto, come testimoniato dalle monete di età neroniana e flavia e successivamente dalle emissioni monetali e medaglioni delle imperatrici di pieno II secolo e inizi III secolo d.C.
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La forma del Tempio
“Si dice che la forma del tempio fosse già quella che vediamo oggi, e c’è un motivo: Vesta è la stessa cosa della terra, a entrambe sta sotto il fuoco guardiano: entrambi significano “CASA”, la terra e il fuoco. La terra è simile a una SFERA, che non poggia su nessun fulcro…Uguale è la forma del tempio: non sporge in esso nessun angolo, dalla pioggia lo protegge una volta.”
Ov. Fast. VI 250-290
“Forma tamen templi, quae nunc manet, ante fuisse dicitur,
et formae causa probanda subest.
Vesta eadem est et terra: subest vigil ignis utrique: significant sedem terra focusque suam. Terra pillae similis, nullo fulcimine nixa; quod ut fiat forma rotunda facit par facies templi; nullus procurrit in illo angulus, a pluvio vindicat imbre tholus”Ov. Fast. VI 250-290
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I frammenti architettonici
Il sacrario di Vesta, in epoca imperiale, doveva apparire come un piccolo monumento (del diametro di metri 15 circa) su alto podio con piedistalli sporgenti e pannelli rientranti. Sul podio – che si raggiungeva con nove scalini – poggiavano le basi composite e fusti scanalati, riempiti per il primo terzo della loro altezza da bastoncini di marmo (rudentes): i fusti della parte esterna, 20 o 22 di numero, dovevano presentare, lungo le scanalature, incassi funzionali all’inserimento di grate di metallo, mentre quelli riconducibili alla cella presentavano una aletta in marmo per potersi accordare con il muro tra le colonne. Sopra vi erano capitelli corinzi scolpiti originariamente in piena tradizione di I secolo d.C. e poi riprodotti o restaurati nel II secolo con varie tecniche di manutenzione. II fregio e l’architrave erano di semplice fattura, uno a tre fasce e l’altro decorato con un rilievo rappresentante attributi sacrificali e simboli sacerdotali. La cornice esterna era piuttosto elegante, con motivi decorativi di I e tardo II secolo d.C. (di simile iconografia ma con una redazione differente). All’interno vi era un corridoio tra la cella e le colonne esterne coperto da un soffitto a cassettoni composto da blocchi trapezoidali lunghi circa 1.40 mt, che comprendevano anche la cornice esterna e quella interna. I blocchi avevano due forme differenti, convergenti tra loro, a formare una sorta di conci auto-portanti che componevano un unico elemento molto resistente per interno ed esterno. Tutti gli elementi architettonici concorrono alla realizzazione di un monumento costruito per durare nel tempo, in eterno.
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Restauri antichi del Tempio
Il sacrario di Vesta ha mantenuto la stessa struttura e la stessa immagine per tutta l’epoca imperiale. Nonostante i molti eventi catastrofici che lo hanno interessato (incendi del 64 d.C. e del 191 d.C.) le officine che hanno lavorato al ripristino antico del tempio hanno mirato ad imitare e restaurare l’aspetto architettonico delle fasi precedenti piuttosto che alla sua ricostruzione ex novo. Ciò è visibile nei numerosi interventi di restauro antico riscontrati sui pezzi architettonici: tasselli di restauro applicati sulle foglie dei capitelli rovinate o chiodini per rinsaldare le parti sommitali delle stesse foglie, rocchi di colonna di sostituzione per restaurare un fusto deteriorato, blocchi di soffitti e cornici sagomate a trapezio, messi in opera come cunei a creare meccanismi autoportanti e di facile sostituzione, cornici forgiate con diversi stili decorativi ma con la stessa sequenza di modanature e una volontà copiativa. La copia si fa quindi una scelta, la volontà di trasmissione di una forma, di una funzione e quindi un simbolo, a discapito della qualità e di una resa più vivace e moderna. In questa ottica, stile e tipo si compenetrano fino quasi ad assomigliarsi non lasciando più traccia o indizio del tempo che passa, mettendolo a tacere e tramandando una immagine di un tempio sempre uguale a sé stessa, ma in continua manutenzione.
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Vita post antica del tempio
Il monumento sembra rimasto quasi intatto, in stato di crollo, fino al XVI secolo e variamente riprodotto da incisori ed architetti, come testimoniano i disegni di Domenico Bramante che vi si ispirò per la realizzazione della chiesa di San Pietro in Montorio al Gianicolo o quelli di Giovanni Sallustio Peruzzi che nel 1555 disegna chiaramente un sacrario rotondo con 18 colonne. Dopo questa notizia, i resti architettonici rimasero sepolti sotto una grande duna di terra per circa tre secoli. Le prime indagini sistematiche sul monumento iniziarono nuovamente solo con Rodolfo Lanciani nel 1876 e poi nel 1883. Nel 1884-1886 fu Heinrich Jordan a studiare i frammenti architettonici e il frammento di iscrizione attribuito al tempio. A questo seguirono gli studi di Giacomo Boni che produssero una cospicua documentazione grafica fondamentale per il proseguimento delle indagini. L’intervento, tuttavia, più rivoluzionario dal punto di vista architettonico e conservativo fu quello di Alfonso Bartoli, direttore del Foro Romano, con la ricomposizione parziale nel 1929 del tempio nel pieno stile dell’epoca. Da quel momento in poi la storia degli studi riguarderà principalmente analisi e indagini delle evidenze archeologiche, scavi relativi al santuario di Vesta e studi architettonici della struttura, fino al recente restauro della ricomposizione di Bartoli e l’allestimento dei pezzi architettonici delle fasi imperiali restaurati a cura del Parco archeologico del Colosseo.
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Il ripristino di Alfonso Bartoli
Era il 30 settembre del 1929 quando Alfonso Bartoli, direttore dell’Ufficio Scavi del Palatino e del Foro Romano, a capo dell’operazione, comunicava l’inizio dei lavori di ripristino parziale del tempio. E il 21 ottobre dello stesso anno l’architetto Gustavo Giovannoni fu chiamato a seguire il cantiere di grande impatto architettonico. La ricostruzione era stata già ipotizzata alla fine dell’Ottocento da Rodolfo Lanciani, Heinrich Jordan e poi da Giacomo Boni stesso. Quest’ultimo aveva predisposto studi e disegni sulla struttura, realizzati dall’architetto Giovanni Battista Milani, storico collaboratore di Boni, e dell’architetto T. Ciacchi, per l’eventuale ricostruzione, poi accantonata dagli stessi, in quanto troppe incertezze gravavano sulla restituzione completa. Alfonso Bartoli, invece, notevolmente motivato dalle forti connessioni del regime fascista con l’antichità, in particolare con Vesta, protettrice del fuoco sacro, simbolo dell’impero romano, si fece promotore di un’ operazione grandiosa: anastilòsi e restauro di 1/6 del monumento, curati dall’Ingegner Cozzo e patrocinati dall’appassionato evergete Alessandro Carettoni. Il ripristino parziale venne attuato costruendo prima un modello al vero in gesso (con diverso orientamento) e poi una struttura moderna in travertino accuratamente invecchiato, integrandola con 89 pezzi architettonici di marmo lunense rinvenuti negli scavi precedenti. Il risultato influenzò irreversibilmente il paesaggio del Foro Romano e costituisce ad oggi, insieme al podio originario, l’unica testimonianza in elevato del sacrario di Vesta. Il racconto di tutto il cantiere di anastilòsi e del restauro effettuato 100 anni dopo dal Parco archeologico del Colosseo è consultabile nel volume a cura di A. Russo, F. Rinaldi e G. Giovanetti, Aedes Vestae. Archeologia, Architettura e Restauro, Roma 2022 (Ed. Gangemi).
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Credits
- Progetto a cura di Roberta Alteri, Francesca Caprioli, Federica Rinaldi
- Testi, contenuti scientifici, ideazione e supervisione progetto Francesca Caprioli
- Realizzazione grafica Stéphanie Lucatelli ed Emanuele Pullano
- Digital Media: Astrid D’Eredità
- Letture Marco Paparella
- Musica “Fenomeni 2”, brano originale basato sulla teoria della “musica delle sfere” di Keplero del compositore Gianluca Misiti, eseguito dal Morphin’quartet
- Un ringraziamento particolare al prof. Wladek Fuchs per la concessione del rendering 2D del pannello 1