PERCORSI/A zonzo con Tarpea: la basilica di S. Francesca Romana

 

Un antico oratorio

Sul luogo dove oggi sorge la chiesa di S. Francesca Romana anticamente sorgeva un piccolo oratorio dedicato ai Santi Pietro e Paolo.  Questa piccola chiesa fu eretta da papa Paolo I tra il 757 e il 767 a ricordo di un fatto miracoloso e strabiliante: si narra infatti che, proprio nel luogo dove oggi sorge la basilica, i due santi affrontarono Simon Mago il quale voleva dimostrare di possedere poteri divini. Simone Mago è a tutti gli effetti un personaggio realmente esistito.

Negli ‘Atti degli Apostoli’ (8, 9-24) ci viene descritto in questo modo: “Vi era nella città (Samaria) un uomo di nome Simone, che faceva il mago e riempiva di stupore i Samaritani affermando di essere un personaggio importante. A lui prestavano tutti ascolto, e i piccoli e i grandi, e dicevano: “Questi è la Potenza di Dio, quella che è chiamata Grande”.    Rimanendo colpito dai prodigi che erano in grado di compiere Pietro e gli altri Apostoli e desiderando anche lui disporre di tale potere, chiese all’apostolo Pietro di poter acquistare col denaro queste facoltà prodigiose. Venne invece duramente rimproverato da quest’ultimo e maledetto per sempre (“Alla perdizione tu e il tuo denaro! Poiché hai creduto di ottenere il dono di Dio con l’oro.” Atti degli Apostoli).

Il termine simonia deriva proprio da questo antico tentativo di Simon Mago di fare commercio delle cose sacre. Da quel momento in poi, Simon Mago decise di usare le sue facoltà magiche per opporsi al progresso della fede e alle conversioni operate dagli apostoli, fino a quando si scontrò con San Pietro, che iniziò a rivelare gli inganni del famigerato avversario. La fama di Simon Mago giunse a incuriosire persino l’imperatore Nerone. La leggenda narra che un giorno, sulla via Sacra, ebbe luogo una sfida tra i due Apostoli e Simon Mago. Dinnanzi all’imperatore e a una gran folla, egli iniziò a librarsi nell’aria, volando molto in alto. Pietro e Paolo allora si gettarono in ginocchio a pregare, e grazie alle loro preghiere alla fine il Mago precipitò al suolo e morì.

L’oratorio, dedicato ai SS. Pietro e Paolo, sorse in ricordo dell’evento miracoloso e al suo interno conservò le due pietre (i silices apostolici) con le impronte che le ginocchia degli apostoli avevano miracolosamente lasciato sulla via Sacra. Queste pietre oggi si possono vedere nella chiesa di S. Francesca Romana, murate lungo la parete destra del presbiterio, verso l’altare (vedi  qui in basso, foto. A. Schiappelli).

Non è stato ancora individuato con assoluta certezza il luogo esatto in cui sorgeva l’antica chiesina dei SS. Pietro e Paolo, ma il fatto stesso che la pietra con le impronte delle ginocchia sia ricordata fin dal medioevo nella chiesa attuale e alcuni ritrovamenti sotto il suo pavimento testimoniano il legame fra le due costruzioni. Sembra probabile che la porta d’ingresso della basilica attuale aperta sul lato lungo, verso l’arco di Tito, sia ancora il ricordo dell’entrata dell’antico oratorio, orientato in maniera diversa (perpendicolarmente) rispetto alla chiesa attuale.

Nell’847 avvenne un fatto molto importante per la storia della nostra chiesa: un violento terremoto distrusse la chiesa di  S. Maria Antiqua al Foro Romano, che si dovette abbandonare e chiudere al culto. Nell’850 papa Leone IV decise allora di edificare una nuova chiesa che ereditò il titolo di quella distrutta dal terremoto e la edificò proprio al posto dell’antico oratorio dei SS. Pietro e Paolo. La nuova chiesa si chiamò così S. Maria Nova, proprio per sottolineare il fatto che ereditò le funzioni che prima erano di S. Maria Antiqua.

Al suo interno venne conservata la preziosa icona della Madonna del Conforto chiamata anche Imago Antiqua che precedentemente era custodita in S. Maria Antiqua. Questa immagine di Maria e del Bambino era veneratissima dai fedeli e con questo gesto il papa volle salvarla dalla distruzione.

 

La Basilica di S. Maria Nova

Il nuovo edificio non si poté allungare sul lato anteriore dell’antico oratorio, perché avrebbe occupato la via Sacra e neanche verso il lato posteriore, perché avrebbe occupato la basilica di Massenzio, ma si allungò lungo l’ampia scalinata del tempio di Venere e Roma, e cambiò l’ingresso che dalla via Sacra si spostò dove lo vediamo attualmente. La basilica era a tre navate e le colonne sostenevano un architrave. Era illuminata da otto finestre a bifora inquadrate da archi a sesto acuto. L’aspetto originario dell’interno di questa antica chiesa lo possiamo ricavare da un affresco del 1468 esistente nel monastero delle Oblate di Tor de’ Specchi (vedi foto in basso), che ci restituisce l’antico aspetto della navata di S. Maria Nova, dove è anche visibile una porta laterale che corrisponde a quella ancora presente oggi verso il Foro Romano. La zona dell’altare, dotata di una cripta sottostante, era più elevata rispetto alla navata centrale proprio perché la nuova chiesa si era dovuta allungare verso la gradinata del Tempio di Venere e Roma. La facciata della chiesa era preceduta da un portico che girava anche sul lato destro della chiesa, fino ad arrivare alla porta laterale.

 

In alto: Scuola di Antoniazzo Romano, Esequie di S. Francesca in S. Maria Nova, 1468, oratorio nel Monastero di Tor de’ Specchi: da questi antichi affreschi quattrocenteschi nel Monastero di Tor de’ Specchi, possiamo ricostruire l’aspetto dell’interno e del portico esterno della chiesa di S. Francesca Romana.

Nel 1161 papa Alessandro III restaurò la chiesa: risalgono a questo intervento il transetto, il magnifico mosaico a fondo d’oro con Vergine in trono e Apostoli che adorna l’abside (vedi in basso, foto A. Schiappelli), il campanile a cinque ordini ornato da finestre a bifora e decorato con colorati bacini di maiolica.

Accanto alla chiesa, sulla destra, vi erano i locali del monastero che partivano dal fianco sud per arrivare fino all’ arco di Tito, inglobandolo. Il monastero, che andò a occupare con il chiostro anche parte del vestibolo della cella dedicata alla dea Roma del tempio di Venere e Roma, ospitò diversi ordini religiosi, finché, nel 1352, papa Clemente VII vi stabilì i benedettini di Monte Oliveto Maggiore, gli Olivetani, che tuttora vi risiedono. I monaci intrapresero importanti lavori di manutenzione dei locali del monastero e del chiostro, che avevano subito molti danni nel terremoto del 1349.

Nell’immagine in alto e in quella in basso si possono notare due edifici che non esistono più: le parti del convento di S. Francesca Romana (A) verso destra e la torre Chartularia (B), che sorgeva sopra l’arco di Tito e ne inglobava in parte la struttura. La torre prendeva il nome dal vicino Chartularium, la sede degli archivi dell’amministrazione bizantina a Roma e del papato poi, usato per la conservazione dei documenti amministrativi. La torre sovrastava l’ingresso alla cittadella fortificata che la ricca famiglia dei Frangipane eresse sui resti dei monumenti romani del Palatino e del Foro Romano a partire dall’XI secolo. Questo ingresso veniva chiamato anche Arco delle Sette Lucerne (C), per il bassorilievo dell’arco di Tito che rappresenta la Menorah, il candelabro a sette braccia.

La torre e le fortificazioni dell’arco di Tito, che inglobavano anche il convento di S. Maria Nova, come si vede da questi due dipinti, rimasero in piedi fino agli anni tra il 1812 e il 1823, quando l’arco fu smontato pezzo per pezzo per liberarlo dai palazzi medievali in cui era intrappolato e ricostruito, rifacendo di travertino le parti mancanti, riproponendo il suo aspetto originario nella forma che ancora oggi ammiriamo. Questo intervento venne eseguito dagli architetti Raffaele Stern e Giuseppe Valadier. Con questo intervento si liberò anche la fiancata della chiesa verso il Foro Romano dagli edifici conventuali di S. Maria Nova che “ ingombravano” l’area verso il Tempio di Venere e Roma e l’Arco di Tito.

Una santa tutta romana

Nella vita di S. Francesca Romana la chiesa di cui stiamo parlando ha avuto una grande importanza: Francesca Bussa de’ Leoni nacque a Roma nel 1384 a due passi da piazza Navona e, fin da piccola, era solita accompagnare la madre nelle visite alle varie chiese del suo rione. Spesso madre e figlia si spingevano fino alla lontana chiesa di Santa Maria Nova, dove Francesca, ormai grandicella, trovò il suo primo direttore spirituale tra i padri benedettini di Monte Oliveto, il quale subito si accorse della sua vocazione alla vita monastica. La ricca famiglia dalla quale proveniva Francesca, però, le aveva riservato un altro destino: suo padre la promise in sposa al nobile Lorenzo de’ Ponziani, che commerciava in bestiame e granaglie. Dopo il matrimonio, Francesca si trasferì quindi a Trastevere.

La vita a Roma in quegli anni non era affatto facile: la chiesa era attraversata dal Grande Scisma, papi e antipapi si combattevano fra di loro, per tre volte Roma fu occupata e saccheggiata dal re di Napoli. La città era ridotta in rovina a causa delle guerriglie urbane e i cittadini soffrivano per la fame, la povertà e le malattie. Nella sua nuova casa a Trastevere, Francesca, nel tempo che le lasciavano libero gli impegni familiari, cominciò le sue opere di carità, svolgendo un ruolo importante nella Roma di quei difficili anni, aiutando chi ne aveva bisogno con la distribuzione di cibo e curando i malati. Nella sua casa, che governava come una vera manager moderna, non faceva mai mancare provviste da distribuire ai poveri, e ben presto la sua dimora diventò un luogo di riferimento per chi in città aveva bisogno d’aiuto. Incurante delle critiche e del disprezzo dei nobili romani, non si vergognò di chiedere lei stessa l’elemosina, per quanti non potevano o non volevano farla. Fortissimo fu sempre il legame fra Roma e la “sua” santa, tanto che i suoi concittadini affettuosamente la chiamavano “Ceccolella” oppure anche “la poverella di Trastevere” perché la consideravano sempre una di loro, nonostante la sua appartenenza al ceto della nobiltà.

Il primo miracolo di Francesca è legato proprio alla distribuzione di cibo che quotidianamente lei e sua cognata Vannozza facevano ai poveri: talmente grande era l’elemosina compiuta da Francesca, che in pochi mesi i locali dei magazzini di famiglia furono svuotati. Il suocero, allibito, decise di riprendersi le chiavi. Allora Francesca e sua cognata, pur di soddisfare le richieste di quanti si rivolgevano a loro, decisero di passare al setaccio la poca pula rimasta sul pavimento e di distribuire anche il poco grano ricavato. Con loro sorpresa, pochi giorni dopo, sia i granai che le botti del vino si riempirono di nuovo. Visto il prodigio le furono restituite le chiavi dei granai di famiglia.

Francesca, insieme ad altre donne si dedicava instancabilmente alle opere di carità, ma le richieste di aiuti da parte dei poveri romani era così alta che un giorno, con il consenso del marito, vendette tutti i suoi vestiti e i gioielli per donare il ricavato ai poveri. Indossò un abito di stoffa ruvida, ampio e comodo, per poter camminare agevolmente per i miseri vicoli di Roma. Sembra di vederla affaccendata senza sosta nelle vie della sua Roma, tra i vicoli di Trastevere, S. Maria Nova e l’orticello che, con le sue compagne, coltivava presso la basilica di s Paolo. La Santa si occupò anche dell’ospedale del Salvatore che suo suocero aveva fondato vicino alla chiesina di S. Maria in Cappella, sul lungotevere di Testaccio. Francesca era instancabile nelle sue opere di carità: l’unico aiuto che si concedeva era un asinello di cui si serviva per trasportare i pesanti sacchi di viveri che le servivano per sfamare i poveri della sua città.

Nel 1409, suo marito Lorenzo, venne gravemente ferito e rimase invalido per tutta la vita. Nel 1410 casa Ponziani venne saccheggiata e i beni di famiglia furono espropriati; Lorenzo, sebbene invalido fu costretto a fuggire. Negli stessi anni, un’epidemia di peste portò Francesca alla decisione di aprire il suo palazzo agli appestati, esponendosi in prima persona al contagio, insieme ai suoi cari. A causa dell’epidemia morirono due dei suoi figli. Lei stessa contrasse il morbo, ma riuscì a salvarsi.

Con le sue opere di carità e la sua vita dedicata al prossimo e a Dio, ben presto Francesca diventò il punto di riferimento di un gruppo di donne che la aiutavano nelle sue opere di carità: il 15 agosto 1425, Francesca, accompagnata da nove di queste compagne, pronunziò nella basilica di S. Maria Nova al Foro Romano, officiata dai monaci olivetani, la solenne formula di oblazione, cioè la  consacrazione delle loro vite al Signore (vedi foto in basso). Ben presto questa comunità divenne una congregazione religiosa ispirata ai valori della spiritualità benedettina, e prese il nome di “Oblate Benedettine di Maria”, note anche con il nome di “Oblate di Tor de’ Specchi” poiché scelsero di vivere in una povera casa ai piedi del Campidoglio, chiamata appunto, Torre degli Specchi.

In alto: Tarpea partecipa alla Oblazione di S. Francesca e delle sue compagne, Scuola di Antoniazzo Romano, 1468, oratorio del Monastero di Tor de’ Specchi.

Francesca continuò a vivere con il marito fino alla sua morte, avvenuta nel 1436, condividendo con lui gli ultimi difficili anni di malattia.  Alla morte del marito, si unì anche lei alle sue compagne nel monastero di Tor de Specchi.  Trascorse gli ultimi quattro anni nel convento e morì il 9 marzo 1440. Le sue spoglie mortali vennero esposte per tre giorni nella chiesa di Santa Maria Nova, poi furono sepolte sotto l’altare della stessa chiesa. Una cronaca dell’epoca riferisce la partecipazione e la devozione di tutta la città.

Fu canonizzata da papa Paolo V il 29 maggio 1608. Il senato di Roma, che già all’indomani della sua morte aveva deciso che il giorno della sua morte venisse considerato giorno festivo e la aveva nominata “Advocata Urbis” (protettrice della città), stabilì che, da allora in poi, sarebbe stata denominata non col cognome da vedova, ma “Romana”. Francesca diventava quindi la prima donna cittadina della Roma moderna a ottenere gli onori degli altari. Dopo aver accolto il corpo della Santa, la chiesa divenne meta di pellegrinaggio e i papi di quel periodo dovettero intraprendere diversi lavori di restauro e abbellimento. Quando, nel 1608, avvenne la canonizzazione della Santa, ancor più si avvertì la necessità di dare alla chiesa un nuovo aspetto per accogliere i fedeli devoti alla Santa.

Venne dato l’incarico all’architetto Carlo Lambardi che trasformò la chiesa in una grande aula rettangolare con quattro cappelle laterali, dandole l’aspetto di sfarzosa chiesa barocca che ancora oggi ammiriamo. Venne aggiunto un magnifico soffitto di legno dorato a cassettoni dai colori sgargianti riccamente decorati con temi e gruppi scultorei legati alla figura di S. Francesca (vedi foto in basso, foto Bruno Angeli, PArCo).

Fu cambiata anche la facciata: quella attuale è in bianco travertino, tripartita da due coppie di altissime lesene; l’ingresso avviene attraverso un portico con tre arcate.

Papa Urbano VIII, nel 1649, fece adornare la cripta che custodiva il corpo della Santa con un tempietto, su disegno di Gian Lorenzo Bernini, ornato da quattro colonne di diaspro e una statua che raffigura la santa in compagnia dell’Angelo Custode, che l’aveva assistita tutta la vita. Santa Francesca Romana, oltre a essere compatrona di Roma insieme ai Santi apostoli Pietro e Paolo, viene anche invocata come protettrice dalle pestilenze e per la liberazione delle anime dal Purgatorio.

Nel 1950 papa Pio XII l’ha dichiarata patrona degli automobilisti (vedi foto in basso, dal sito dell’ACI Automobil Club Italiano), perché il suo Angelo Custode l’accompagnava sempre durante i suoi spostamenti, sprigionando una luce che le permetteva di vedere chiaro anche di notte, evitandole le strade pericolose e indicandole la via migliore da seguire per portare avanti le sue opere di carità. Per questo motivo ancora oggi, il 9 marzo di ogni anno, gli automobilisti di Roma si radunano nei pressi della chiesa di Santa Francesca Romana, sulla piazza del Colosseo, per ricevere una speciale benedizione per sé e per i propri mezzi.

Ancora oggi poi le suore di Tor de’ Specchi il 9 marzo preparano e benedicono uno speciale unguento che Francesca insegnò loro e che lei usava per sanare malati e feriti, preparandolo. nello stesso recipiente adoperato da lei più di cinque secoli fa. E tanto grande era la popolarità della Santa che la chiesa di S. Maria Nova finì per essere dedicata alla “più romana di tutte le sante” e chiamata, in suo onore, S. Francesca Romana.

APPROFONDIMENTO: l’ IMAGO ANTIQUA, storia di un salvataggio

Nell’850, tre anni dopo il disastroso terremoto che interrò completamente la chiesa di S. Maria Antiqua, papa Leone IV decise di far costruire, per rimpiazzarla, un’altra chiesa nel Foro Romano che infatti prese il nome di S. Maria Nova. Nella nuova chiesa, oggi dedicata a Santa Francesca Romana, fece trasferire l’icona della Madonna del Conforto chiamata anche Imago Antiqua che precedentemente era custodita in S. Maria Antiqua.

Con questo gesto il papa volle salvare quella che era un’immagine veneratissima dai  fedeli. L’icona, infatti era un dipinto su tavola tipico dell’arte bizantina che raffigurava la Madonna, il Cristo o uno o più Santi. Addirittura si pensava che le icone fossero opere di Dio stesso, realizzate da Lui attraverso le mani del pittore. Per questo chi le dipingeva non metteva mai la sua firma su queste immagini. Per eseguirle si riponeva una cura infinita, nella scelta dei colori e nella loro preparazione. L’immagine che ne risultava era la più bella e accurata possibile, i colori erano accesi e particolare cura si metteva nella rappresentazione degli occhi e del volto, e i volti dei Santi erano spesso incorniciati da cornici in oro e argento ornate di pietre preziose. Le icone erano particolarmente care ai fedeli, che a loro si rivolgevano preghiere stabilendo un dialogo intimo e personale.

Questa immagine fu dipinta negli anni in cui il piccolo oratorio bizantino di S. Maria Antiqua venne trasformato in chiesa, sotto Giustino II,  fra il 565 e il 578 . È emozionante pensare che questa  è una delle più antiche icone di Maria esistenti al mondo e sicuramente è la più antica di tutta Roma. In questa immagine Maria tiene teneramente in braccio il Bambino e lo indica con  la mano sinistra. Questo particolare tipo di immagine in greco prende il nome di Odighítria, che vuol dire colei che conduce, mostrando la direzione,  dove naturalmente la “direzione” è il Figlio Gesù. Viene chiamata anche Madonna del Conforto, forse per i suoi occhi grandi, che sembrano fissare chi guarda.

L’avventurosa storia di questa antica immagine, però,  non finisce qui. Nel 1216 infatti essa subì un disastroso incendio e di lei sparirono le tracce fino a quando, nel 1950,  un restauratore, Pico  Cellini,  la riportò alla luce mentre lavorava al restauro di un’altra icona del XIII secolo. Sotto a questa immagine egli ne scoprì  un’altra, che altro non era se non l nostra Imago Antiqua, di cui si erano salvati solo i volti della Vergine e del Bambino. Il pittore medievale, che vi ridipinse sopra, li aveva così salvati,  permettendogli di giungere fino a noi. Il restauratore decise allora di staccare i due volti e di ricomporli su un nuovo supporto, riuscendo così a salvare sia l’immagine del VI secolo (ora custodita nei locali del monastero), sia  quella del XIII secolo, che ora si può ammirare sull’altare maggiore della chiesa di S. Francesca Romana.

Anche la tecnica con cui furono dipinti i volti della Madonna e del Bambino differisce dall’immagine più recente, infatti essi sono dipinti a encausto,  eseguito su una tela di lino. Nell’encausto, i colori venivano mescolati alla  cera con funzione di legante e mantenuti liquidi dentro un braciere. Una volta preparati in questa maniera, i colori venivano stesi con un pennello o con una spatola. I dipinti eseguiti con questa tecnica risultano molto vividi e brillanti e donano un forte effetto visivo.

 

In alto: la Madonna col Bambino del secolo XIII, posta sull’altare maggiore della basilica di S. Maria Nova, il dipinto  nascondeva la nostra Imago Antiqua. Le due immagini furono separate grazie al coraggioso restauro di Pico Cellini nel 1950. Foto Bruno Angeli/Parco Archeologico del Colosseo.

Testi di Francesca Ioppi; editing:  Andrea Schiappelli.
“Tarpea” è un character originale di Silvio Costa.

 




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