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I suoni del Colosseo

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I suoni del Colosseo

In occasione della Festa della Musica 2023 il Parco archeologico del Colosseo presenta I suoni del Colosseo: un percorso interdisciplinare per ampliare la conoscenza del Parco come un luogo vissuto е ricco di memoria. È un itinerario alla scoperta delle musiche e delle sonorità che animavano i luoghi del Parco dall’Antichità al Rinascimento: sonorità che da sempre accompagnano le vicende più importanti della nostra vita. La musica infatti, anche in epoca romana, era presente non soltanto in occasione delle cerimonie sacre, ma in qualsiasi altra circostanza solenne, religiosa o mondana, in tutti i momenti lieti o tristi. Così, per venerare gli Dèi si cantavano gli inni, nei matrimoni si intonavano gli imenei, nei funerali i canti funebri e le lamentazioni al suono delle tibie…..

Il percorso è composto da 5 tappe: partendo dal Tempio di Venere, passando per l’Arco di Tito, l’itinerario si sviluppa in salita verso il Museo Palatino, proseguendo poi con la visita alla Loggia Mattei  e si conclude, girando a sinistra, con la Casina Farnese, da dove si apre un panorama mozzafiato.

https://maps.app.goo.gl/YjP95RHnvk9s4BDL8

 

 

Il tempio di Venere e Roma. Un musicista greco alla corte di Adriano

L’Imperatore Adriano trascorse la maggior parte della sua esistenza viaggiando. Nel 131, di ritorno a Roma, si dedicò alla costruzione del Tempio di Venere e Roma, che consacrò nel 135. La concezione imperiale e la propaganda culturale di Adriano, imperatore profondamente ellenofilo nei gusti artistici, poggia su un modello educativo di evidente matrice greca nel cui ambito trova ampio spazio la musica: lo testimoniano alcune fonti biografiche sull’imperatore che, accanto alla sua grande passione per la poesia, la letteratura e l’architettura, ne citano la perizia nell’arte di suonare e cantare.

L’attività del musicista greco Mesomede di Creta alla corte dell’imperatore Adriano è testimoniata da numerose fonti, alcune delle quali tramandano non solo i titoli o i testi dei suoi componimenti, ma anche le musiche, nello specifico due proemi e due inni religiosi. Questi componimenti di Mesomede, pubblicati per la prima volta da Vincenzo Galilei (padre di Galileo Galilei nonché del noto liutista Michelangelo, fratello minore di Galileo) nel 1581, sono i primi brani musicali dell’Antichità classica a essere conosciuti nel mondo moderno. Anche se non abbiamo testimonianze esplicite al riguardo, è molto probabile che gli inni religiosi di Mesomede abbiano risuonato anche tra le pareti del più grande tempio di Roma, che lo stesso imperatore Adriano aveva contribuito a progettare.

 

La musica nell’antichità: le testimonianze degli antichi

La musica ebbe un ruolo di notevole importanza nella civiltà romana dall’ epoca arcaica fino al tardo Impero.  Sotto l’influenza della teoria antica greca, si riteneva anche a Roma che la musica rispecchiasse l’armonia del cosmo, e per questo venne associata in particolare con la matematica e con la scienza.  La musica permeava quasi tutte le occasioni sociali, religiose e mondane, pubbliche e private. Purtroppo la perdita pressochè totale dei brani della musica antica lascia un grande vuoto difficile da colmare.

Per aiutarci in questo difficile compito, dobbiamo affidarci ai testi scritti dagli autori antichi. Cicerone. Ad esempio, nel suo De Oratore, ci parla di musica con senso estetico e competenza: “Ogni passione ha una sua voce e un suo gesto. Ogni aspetto del volto e ogni tono della voce corrispondono in pieno all’eccitazione della passione, proprio come avviene nelle corde della cetra. I numerosi toni come il tenero e il duro, il pizzicato e il legato, il sostenuto e lo staccato, il tono smorzato e quello a scatti…”

Il celebre oratore romano bene esprime il concetto Platonico in base al quale la materia (il corpo, ma anche gli strumenti) può trasformarsi in un elemento spirituale (l’amica, ma anche la musica): “Alcuno potrebbe dire che in una lira accordata l’armonia è invisibile, immortale e divina; la lira e le corde, al contrario, sono corpi e di corporale forma composti, terreni e compagni naturalmente a ogni cosa che è mortale”

Plutarco, nel suo trattato “Sulla musica” evidenzia invece la duplice natura della musica che è l’espressione delle emozioni e insieme della scienza (poiché la musica si compone secondo armonia in seguito ad analisi e calcoli di natura anche matematica).

Preziosi riferimenti si trovano anche nei testi di Ammiano Marcellino, uno storico romano di età tardo-imperiale (332-401 d.C. circa). Ammiano il suo disappunto per l’eccessiva importanza riservata all’arte delle Muse in tutte le sue forme, a scapito degli studi considerati “seri”: “le poche case che nel passato si erano rese illustri per culto degli dei ora sono invase da un’ignavia degna di scherno. E risuonano di canti e del tintinnio delle cetre, lieve come soffio. Al posto di un filosofo oggi si fa venire un cantore, anziché un oratore un maestro di arti sceniche; le biblioteche, come i sepolcri, sono chiuse per sempre, mentre si costruiscono organi idraulici e lire enormi, tibie ed accessori pesanti per la mimica degli istrioni (…) alcuni accompagnatori di mime e tremila danzatrici, con i loro cori e i maestri di danza…”

Toccante poi la testimonianza di Sant’Agostino, che riporta un dialogo con un Suo discepolo:

“Definisci dunque la musica.”

“Non oso”

“La musica è la scienza che insegna a modulare bene. Non ti pare? Vediamo pertanto di chiarire che cosa significhi “modulare”. La modulazione, quindi, può essere giustamente definita, per così dire, come un’abilità nel muovere, ovvero una capacità con la quale si riesce a far sì che qualche cosa si muova bene. Se qualcuno muovesse le membra non per altro motivo che per bellezza e armoniosità, che cosa diremmo di lui, se non che danza?

La musica è la scienza del movimento ben regolato. Bene si muove qualunque cosa proceda secondo la legge del numero nel rispetto proporzionale dei tempi e degli intervalli (quindi reca diletto). La buona modulazione appartiene solo a questa, tra le discipline liberali, cioè alla musica.”

Nella tarda antichità Isidoro di Siviglia (VII sec. d.C.) ci dà una suddivisione sistematica della musica in tre diverse parti: “Le parti della musica sono tre, e cioè l’armonica, la ritmica e la metrica. L’armonica è quella che distingue i suoni in acuti e gravi. La ritmica è quella che si occupa dell’incontro delle parole, e quindi se i suoni sono o no connessi in modo organico, e infine la metrica è quella che studia e calcola la misura dei diversi metri, come ad esempio l’eroico, il giambico, l’elegiaco ecc.”

 

Arco di Tito.  Strumenti e musicisti

L’Arco di Tito, dedicato postumo all’Imperatore dal fratello Domiziano per celebrare il trionfo nella guerra giudaica, ospita nel fornice interno due interessanti rilievi. Sul lato sinistro (sud) è raffigurato l’ingresso del corteo nella Porta Triumphalis, che è raffigurata all’estrema destra in prospettiva scorciata. Nella scena è raffigurato il trasporto degli arredi sottratti dai Romani al Tempio di Gerusalemme. Nel rilievo sono rappresentati anche, come parte integrante della marcia trionfale i, i tibicines (suonatori di tromba).

Ma chi erano i musicisti nella Roma antica? A Roma solisti, virtuosi, cantanti e strumentalisti godettero di gran favore presso il pubblico. Le Satire di Giovenale sono una ricca fonte dei nomi di musicisti e danzatrici. Altri nomi di celebri musicisti, citati da Svetonio e da Marziale, sono il citaredo Pollione “degno di Corona di Campidoglio e idolo delle donne” ed Edimele, il cantore e citaredo definito “tenero” (forse un musicista dalla delicata ispirazione).

Sappiamo anche che i musicisti venivano pagati molto bene: Svetonio ci narra, ad esempio, che quando Vespasiano riapri il teatro di Marcello compensò con 200.000 sesterzi i citaredi Terpno e Diodoro. I musicisti, protetti dai potenti associazioni professionali tutelavano a perfezione i loro interessi. Ma questo era possibile poiché la Musica era considerata dai romani come un essenziale ed insostituibile servizio religioso e sociale.

Tito Livio ci racconta un episodio interessante che ci mostra come il “sindacato” dei musicisti fosse potente al punto da permettersi uno “sciopero”: “I suonatori di tibie indignati perché i precedenti censori avevano vietato loro di tenere il tradizionale banchetto nel tempio di Giove, uso tramandato dall’antichità, se ne andarono tutti a Tivoli, di modo che a Roma non rimase nessuno ad accompagnare con la musica i riti sacrificali. La cosa preoccupò il Senato come un’irregolarità religiosa e furono mandati a Tivoli dei messi. I Tiburtini promisero il loro interessamento e, dapprima chiamarono i suonatori nella Curia e li invitarono a far ritorno a Roma. Poi, visto che non riuscirono a convincerli, li trassero in inganno. Li invitarono nelle case per un banchetto, e li riempirono di vino. I musicisti si addormentarono, e cosi in preda al sonno li gettarono legati sui carri e li portarono a Roma. Non si accorsero di nulla, se non quando li svegliò la luce del giorno, sui carri abbandonati nel Foro. Alla fine, fu concesso loro che per tre giorni all’anno potessero vagare per la città ornati a festa cantando, e fu ristabilito il diritto di banchettare nel tempio di Giove per coloro che accompagnavano con la musica i sacri riti ”.

 

La danza: Eros e  le Muse nella Loggia Mattei

La Loggia Mattei, realizzata intorno al 1519-20, è quanto si conserva di una piccola villa affrescata, fatta costruire nel XIV secolo dalla famiglia Stati alla sommità del Colle Palatino, poi acquistato dalla famiglia Mattei nel 1561. Affrescata a grottesche, molto probabilmente ad opera di Baldassarre Peruzzi, e suddivisa geometricamente da cornici e festoni di alloro presenta attualmente al centro lo stemma della famiglia Mattei; ai lati due riquadri rappresentano le Nozze di Ercole ed Ebe, da una parte, e Venere tra le Muse, dall’altra.

Quest’ultimo riquadro, in cui Venere è attorniata da alcune Muse, che sono raffigurate anche, sempre all’interno della Loggia, in alcuni riquadri più piccoli: tra queste c’è anche Terpsicore, musa della danza, che ci riporta alle tradizioni antiche, in cui la musica e danza erano collegate ancor più strettamente di oggi: per gli antichi infatti la mousikè comprendeva non solo i suoni in senso stretto ma anche i testi e le danze che accompagnavano il canto.

In realtà, mentre in Grecia la danza ebbe sempre un ruolo importante nella società, diversa fu la situazione a Roma: la società romana arcaica non apprezzava lo spiritualismo della danza e conobbe quasi solo danze di carattere militare o strettamente rituale.

Ma all’inizio del II secolo a.C. con l’assimilazione da parte dei romani di molti aspetti della cultura greca la situazione cambiò: la danza divenne “di moda” anche nella vita privata, tanto che i nobili iniziarono a mandare i proprio figli a scuola di danza, suscitando lo scandalo di Scipione Emiliano, che, al pari dei romani più tradizionalisti, non riteneva queste attività consone ai romani di “buona famiglia”: “Fanciulli di famiglia libera e vergini vanno a  scuola di danza tra i giovani depravati. Quando qualcuno mi raccontava queste cose non potevo credere che uomini nobili insegnassero simili cose ai propri figli: ma, condotto in una scuola di danza, vidi più di cinquanta ragazzi e ragazze, e tra loro uno, che portava ancora la bulla, figlio di un candidato politico, di circa dodici anni, che danzava accompagnandosi con le nacchere una danza che uno schiavetto impudico non avrebbe potuto ballare salvando la decenza, e provai compassione per la Repubblica”

Eppure, il desiderio di ballare fu più forte degli scrupoli. Sembra, che nell’età imperiale la danza conquistasse anche gli uomini adulti: tra le Satire di Orazio e tra gli scritti di Marziale figurano vari episodi di danza. Sappiamo che anche l’imperatore Caligola ballava. Questi rimasero però casi piuttosto eccezionali: per gli uomini adulti, e “con la testa a posto”, danzare Romanum non erat.

 

Apollo citaredo. La cetra o la lira? Gli strumenti e il modo di suonare

Nel Museo Palatino i visitatori possono ammirare questo bellissimo affresco di secondo stile, rinvenuto in giacitura secondaria nei pressi della Casa di Augusto e probabilmente pertinente alla abitazione dell’’imperatore. La pittura raffigura Apollo Citaredo, che lo stesso Augusto avevo scelto come propria divinità protettrice, dipinto su un compatto fondo azzurro. Il dio è seduto e tiene con la mano sinistra una cetra… ma non potrebbe essere una lyra? Questi due strumenti antichi, utilizzati da greci e romani, vengono a volte confusi dai moderni per la loro relativa somiglianza: sono infatti  entrambi strumenti a corde con cassa armonica. Le loro differenze sono tuttavia piuttosto evidenti: la cetra, cithara in latino (da cui l’italiano chitarra), nota nella cultura greca e citata già in Omero, era uno strumento solistico  e diremmo oggi “da concerto”: a Roma ampliò le sue dimensioni, ingrandendo la cassa e le braccia lignee, e cosi pose nell’ombra la lira. Nelle iconografie latine il citaredo (suonatore di cetra) è spesso seduto. La lira, rispetto alla cetra, ha generalmente una cassa di risonanza più “rotonda” (a ricordo del carapace di tartaruga con cui Hermes costruì la prima Lyra) e ha i bracci in legno molto incurvati. Generalmente più piccola e sottile della cetra, mantiene il suo carattere quasi intimo, domestico o per gli scolari.

Come si suonava la cetra? Marco Fabio Quintiliano ci ha lasciato una preziosa descrizione: “I suonatori di cetra contemporaneamente ricordano a memoria il testo e lo accompagnano con il canto e con le modulazioni della voce, mentre con la destra pizzicano certe corde, altre ne strappano con la sinistra, altre ne trattengono, ne sfiorano, e neppure il piede se ne sta in ozio, perché batte ritmicamente il tempo”

Secondo Marziale, il citaredo doveva essere un buon mestiere e una buona sistemazione, lo cita in un epigramma:

“Ama d’apprendere un mestier lauto?

Studi per bene la cetra e il flauto;

ma se ha il cervello un po ristretto,

faccia l’araldo o l’architetto”

 

La “Casina Farnese” e il Ninfeo degli Specchi: gli Horti Farnesiani e la Musica sul Palatino in epoca rinascimentale e barocca

 

La cosiddetta “Casina Farnese” è quello che resta della “Casina del Belvedere” dei cinquecenteschi Horti Farnesiani. A decorare il doppio loggiato, gli splendidi dipinti a grottesche e con soggetti mitologici legati all’araldica della famiglia Farnese, realizzati per mano di due autori diversi: per la loggia inferiore, un allievo della bottega di Taddeo Zuccari, mentre quella superiore sarebbe opera di “Pasqualino di Livio da Forlì”. Intorno al 1565, i Farnese lo ampliarono, aggiungendo un doppio ordine di loggiati a ovest, orientato verso San Pietro. Gli affreschi, a differenza di quelli della vicina e di poco più antica “Loggia Mattei”, non contengono esplicite allusioni musicali, fatta eccezione per i putti suonatori di tromba raffigurati in alcuni pennacchi delle volte.

Tuttavia gli spettacoli musicali erano certamente frequenti all’epoca sul Palatino: uno degli usi principali degli Horti era proprio quello di ospitare feste e banchetti, allietati da concerti e spettacoli, come avvenne ad esempio in occasione del matrimonio tra Odoardo Farnese e Margherita de’ Medici, celebrato proprio negli Horti Farnesiani.

Una rappresentazione icastica di questi concerti ci è conservata, sempre sugli Horti dal “Ninfeo degli Specchi”, proprio in questi mesi in corso di restauro: qui un affresco, datato probabilmente ai primi anni del ‘600 proprio grazie alla tipologia degli strumenti musicali, raffigura proprio dei suonatori intenti ad un concerto all’aperto, sotto un pergolato.

Dai giardini privati, pensati come la sede delle Muse e abitati dalle ninfe, hanno preso le mosse le forme musicali e recitative che hanno ridato la vita allo spettacolo rinascimentale e moderno. L’idea integrale del teatro antico può pensarsi nello spazio della villa e integrarvi un insieme di tipologie architettoniche che si sottrae al confronto con lo spazio urbano, perfezionando la riflessione sui modelli residenziali neoclassici in una concezione che vede il teatro come parte della casa perfetta.

 

Testi di Gulzada Dedova e Francesca Boldrighini